Patrimonio pittorico e artistico
della Chiesa dei Frati Cappuccini
Madonna del Soccorso
particolare
Nel 1780, il patrimonio pittorico del Convento alassino fu oggetto di forme di attenzione di segno svariato. In quell'anno, infatti, al Padre Guardiano della comunità cappuccina fu proibito di rimuovere dal suo altare la venerata tavola cinquecentesca della Madonna del Soccorso.
Nel novero delle opere custodite nella chiesa dei Cappuccini, diligentemente inclusa tra le mete di visita della città di Alassio, Ratti ritenne invece meritevoli di ricordo due testimonianze pittoriche del Seicento genovese, il San Felice da Cantalice di Gio Andrea De Ferrari (prima del 1598 / 1669) e la tela delle Anime Purganti di Gio Andrea Carlone, quest'ultima la sola sopravvissuta.
La chiesa però racchiudeva anche altre testimonianze, di un livello non paragonabile alle due citate e di realizzazione più recente, sull'onda di beatificazioni di membri dell'Ordine: la pala con i Beati Fedele da Sigmaringen e Giuseppe da Leonessa è prossima ai modi di Imperiale Bottino e tiene conto del repertorio figurativo di Domenico Piola; quella dell'altare di San Francesco (primo a destra), che esalta il Sacro Cuore di Gesù e il Cuore Immacolato di Maria, è opera estrema (1765) del bolognese Giacomo Antonio Boni. Senza contare l'apporto di un prolifico artista dell'estremo Ponente di secondo Settecento come Tommaso Carrega da Porto Maurizio.
Undici anni dopo il ritorno dei frati nella loro sede (1817), un pittore di Savona di cultura moderatamente neoclassica, Agostino Oxilia, realizzò la pala dell'altar maggiore che suona come la legittimazione del ruolo dei Cappuccini nell'età della Restaurazione, sottolineata dalla Bolla di Onorio III, costitutiva dell'Ordine francescano, ben evidente a fianco del Padre Serafico, e nel contempo come conferma dell'importanza del culto mariano e della preghiera ai Santi, in particolare a Sant'Antonio da Padova.
Benedetto Thomato
(?) (Alassio?, sec. XVI) ardesia scolpita, cm 313 x 134
Il pulpito, che proviene dalla Chiesa di S. Maria degli Angeli dei frati minori Zoccolanti, è costituito da una base quadrata su cui si fonda lo stelo a colonna rastremata verso l'alto. La tazza è sorretta da un capitello a fasce bombate ed è composta di sei facce scolpite a bassorilievo.
Il pannello centrale raffigura la Natività mentre ai lati sono sbalzati i Santi Francesco d'Assisi, Ludovico da Tolosa, Bonaventura da Bagnoregio, Bernardino da Siena, Antonio da Padova, individuati da scritte che abbreviano i loro nomi. San Bernardino da Siena, che con la sinistra indica in alto il Crismon nell'altra mano regge un libro che riporta incisa l'epigrafe: PATER MANIFESTAVI NOMEN TUUM HOMINIB (US), ma che è importante soprattutto perché testimonia la data, 1590, di esecuzione dell'opera.
La cultura di appartenenza dell'ignoto artefice può essere assimilata a quella "bottega dei pulpiti".Lo scultore, in base alle congetture dello studioso ligure e alla datazione del pulpito, può verosimilmente essere identificato in quel Benedetto Thomato scalpellino abitante in Alaxio che nel 1587 si dice pronto a completare il nuovo pergamo, la cui costruzione era stata prevista dal vescovo Luca Fieschi per la cattedrale di Albenga, per la vigilia di Natale (CERVINI, c.d.s.).
Madonna col Bambino in trono e angeli
Bottega di Gian Giacomo de Alladio, detto Macrino d’Alba
(notizie dal 1495 al 1513)
La tavola venne citata negli anni Settanta del XX secolo da Gian Vittorio Castelnovi, il quale la considerò una "copia libera (datata 1573) dallo scomparto centrale del polittico di Macrino d'Alba alla Certosa di Pavia, con angeli reggicandela desunti piuttosto da Defendente".Il dipinto, trattato da Padre Cassiano da Langasco (1970) con una datazione al 1474 (poi corretta a mano dall'autore in 1473 all'interno di alcune copie del volume), fu accostato in seguito da Giovanni Romano (1974), non senza alcune perplessità, alla produzione di Macrino d'Alba. Tale riferimento sembra aver accompagnato l'opera sino alla fine dell'ultimo decennio del Novecento.
Madonna Immacolata tra i Santi Andrea, Francesco d'Assisi, Chiara e Antonio di Padova
Giovanni Battista Casoni
(Lerici, 1610 - Genova, 1686) - olio su tela, cm 300 x 197
La tela, restaurata da Riccardo Janin nel Laboratorio di restauro della Soprintendenza nel 1995, figurava sull'altar maggiore della chiesa di S. Andrea delle Clarisse ad Alassio. Le suore, costrette ad abbandonare definitivamente il loro convento nel 1885 nella sua area sorgeva successivamente il palazzo del Comune, non poterono trasferire il quadro nella villa generosamente offerta dal canonico Edoardo Martini in regione Belvedere; perciò la pala trovò ricovero nella Chiesa dei Cappuccini. E' singolare come i mutamenti attributivi del dipinto abbiano coinciso per un certo tempo con quelli di un'altra Immacolata alassina, esposta nella chiesa del Collegio Don Bosco, in origine chiesa dei Francescani Osservanti, di cui arredava appunto l'altare principale. Anche la nostra infatti passò dal catalogo di Giovanni Battista Castello il Bergamasco a quello di Andrea Ansaldo. Ultimamente, però, Alessia Devitini (1997) l'ha convincentemente ascritta a Giovanni Battista Casoni, allievo e cognato di Domenico Fiasella.
Bernardo Castello
(Genova 1557 ca. - ivi 1629) - olio su tela, cm 285 x 177
La tela giunse nella chiesa di Alassio intorno al 1933; un cartiglio posto sul retro ne attesta la provenienza dalla chiesa genovese della SS. Concezione, detta anche del Padre Santo.La scena rappresenta il momento in cui San Francesco appone il velo della castità sul capo di Santa Chiara con i personaggi fissati, quasi come gruppi statuari, in un momento di religiosa solennità, bilanciati dalla giocosità dei putti nella luce dello Spirito Santo.Uniche concessioni ad una dimensione più umana sono la figura della madre della Santa in lacrime e i due bambini che assistono all'evento in abiti contemporanei. Alcuni oggetti testimoniano la vicenda di Chiara: sulla balaustra sono abbandonati i gioielli e la veste di broccato, simboli di vanità e del mondo materiale, cui ella rinuncia per abbracciare la povertà; sull'altare in legno alla "cappuccina", le forbici, riposte sul Vangelo, con cui Francesco ha tagliato i lunghi capelli della Santa, e l'ostensorio con cui la monaca, secondo la tradizione agiografica, scacciò i saraceni.
di Valentina Penco
L'onnipresente impiego del legno nelle sedi dell'Ordine, tanto negli altari quanto nelle fratine, nei tabernacoli intarsiati e nelle semplici crocette delle celle dei frati, era ed è tale da riconoscersi come una peculiarità tutta cappuccina.
Le motivazioni all'origine di una produzione in cui il legno ha un indiscusso dominio si rintracciano nella spiritualità stessa dell'Ordine che, amante della natura e della povertà, trova nel legno il materiale più congeniale alla propria cultura.
Uno dei capisaldi della "psicologia" francescana, oltre alla semplicità, al rigore, alla povertà, è il talento dell'operosità, come ricorda un incisivo passo del Testamento di San Francesco, del 1226: "Io, con le mie mani, lavoravo e voglio lavorare, e voglio che i miei frati fermamente lavorino in un onesto lavoro; quelli che non sanno imparino".
L'invito a non stare mai in ozio rese note le comunità cappuccine per una laboriosità finalizzata non solo alla propria sussistenza, ma intesa anche come mezzo di elevazione spirituale. Tanta operosità rese i conventi centri autosufficienti, stimolando la nascita e la diffusione di una produzione artigianale "di stile cappuccino", che, tenuta a soddisfare le molteplici esigenze di una comunità religiosa, coinvolgeva anche la semplice dimensione quotidiana.
Anche fra le righe delle carte seicentesche relative alla storia della Chiesa di Nostra Signora del Soccorso di Alassio compare come dato di primaria importanza la segnalazione di arredi privi di "curiosità o di altro ornamento". Le sole eccezioni all'"altissima povertà" francescana, erano le suppellettili legate al culto del Sacramento dell'Eucarestia: i calici, le pissidi, il tabernacolo ed il velo che lo ricopre ... .













